Feb 16

I LIMITI DELLO JUS VARIANDI NELL’ASSEGNAZIONE A MANSIONI EQUIVALENTI

Articolo dell’Avv. Pietro Scudeller pubblicato su Il Giurista del Lavoro n. 1/2009

Cass., Sez. lav., 29.09.2008, n. 24293:
”Nell’ambito dello jus variandi riconosciuto al datore di lavoro, le mansioni di destinazione del lavoratore devono consentire l’utilizzazione ovvero il perfezionamento e l’accrescimento del corredo di esperienze, nozioni e perizie acquisite nella fase pregressa del rapporto.”
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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24293 del 29 settembre 2008, si pronuncia in un caso nel quale una dipendente di un’azienda gestrice di reti telefoniche, già assegnata a mansioni di impiegata amministrativa, era stata spostata al servizio di call-center (mansioni di centralinista) e, avendo ritenuto illegittima ed in peius tale modifica, aveva chiesto la reintegra nelle mansioni precedenti ed il risarcimento dei danni. Mentre il Tribunale aveva respinto il ricorso, la Corte d’Appello lo aveva ritenuto fondato, pronunciandosi per la reintegra.
La Cassazione, confermando la decisione del giudice d’appello, osserva che per il rispetto della nozione di equivalenza di cui all’art. 2103 c.c. non basta l’appartenenza di ambedue i tipi di mansioni, originarie e nuove, al medesimo livello di inquadramento professionale, occorrendo altresì che le mansioni di destinazione consentano “l’utilizzazione ovvero il perfezionamento e l’accrescimento del corredo di esperienze, nozioni e perizia acquisite nella fase pregressa del rapporto”.
Poiché la Corte d’Appello, nella sentenza impugnata, aveva fatto applicazione di tale principio ed aveva adeguatamente motivato, con giudizio di fatto incensurabile in Cassazione, la maggior ricchezza delle mansioni di provenienza, nelle quali la dipendente aveva non indifferenti occasioni di crescita professionale, anche perché svolte in collegamento ed in collaborazione con altri uffici della società, mentre quelle di destinazione risultavano elementari, estranee al bagaglio professionale acquisito ed aventi “in sé un maggior rischio di fossilizzazione delle capacità della dipendente”, il ricorso, anche alla luce della propria giurisprudenza (Cass. SS.UU. 24 novembre 2006 n. 25033 e Cass. 2 maggio 2006 n. 10091) andava respinto.
La sentenza offre l’occasione di ripercorrere lo stato della dottrina e giurisprudenza sul tema.
Come noto, l’art. 2103 c.c. enuncia che “il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”.
La norma, così come si legge oggi, è il risultato della novella, come noto, introdotta dall’art. 13 dello Statuto dei Lavoratori.
Il tema dell’indagine riguarda soltanto quel passaggio descritto nella norma con l’inciso “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte”.
Si parla in tali casi di “mobilità endoaziendale” o di “mobilità orizzontale”.
Va subito detto che non è mai stato posto in contestazione il potere del datore di lavoro di procedere ad assegnazione di mansioni diverse e nuove, essendo tale facoltà una delle espressioni essenziali di esercizio di quel potere direzionale ed organizzativo nella gestione dell’impresa, o attività lavorativa in genere, che gli è riconosciuto sia dalla Costituzione (artt. 41 e 46), sia da diverse norme del codice civile (artt. 2082, 2086, 2094, ecc.).
L’esercizio dello jus variandi non richiede quindi, in genere e cioè purché esercitato nei limiti che si preciseranno, il consenso del lavoratore subordinato; d’altra parte l’ultimo comma dello stesso articolo sancisce la nullità di eventuali patti contrari.
Tuttavia la norma contenuta nell’art. 2103 c.c. pone due limiti fondamentali: quello dell’equivalenza delle mansioni e quello, che non indagheremo in questa sede, della irriducibilità della retribuzione.
Il punto è quindi quello di stabilire quando le vecchie e le nuove mansioni possano dirsi “equivalenti”, a prescindere dall’aspetto retributivo.
Vista la specificazione dei due requisiti come distinti, infatti, è evidente che l’equivalenza si pone come requisito diverso ed aggiuntivo rispetto alla conservazione del livello retributivo.
Dalla collocazione della norma novellatrice dello Statuto dei Lavoratori tra quelle del titolo primo, a tutela della libertà e dignità dei lavoratori, se ne può ricavare innanzitutto il fine di tutela della dignità del lavoratore, che è anche uno dei limiti all’esercizio della libera iniziativa economica posto dal secondo comma del citato art. 41 della Costituzione.
Ma quale profilo della dignità del lavoratore si mira a tutelare?
E’ stato osservato che, principalmente in virtù del bene tutelato anche dalla regola della promozione automatica presente nello stesso articolo, è la professionalità del lavoratore l’aspetto che si vuol salvaguardare.
Cosicché l’equivalenza delle mansioni può essere intesa come il criterio di controllo dell’atto gestionale datorile sotto il profilo della non lesività del bene professionalità del lavoratore.
Con la conseguenza, in sede processuale, che sarà sempre onere del datore di lavoro provare l’avvenuto rispetto del carattere di equivalenza, in caso di contestazione.
Poiché dunque si tratta di una norma aperta, solo teleologicamente determinata, occorre riempirla di contenuti e sarà inevitabile una certa discrezionalità dell’interprete nell’individuazione del contenuto più corretto caso per caso.
Sono state infatti proposte soluzioni diverse.
Per delineare meglio i contorni della professionalità da salvaguardare, due sono le tesi fondamentali contrapposte: per la prima la professionalità va intesa come professionalità pregressa, già acquisita, e quindi in senso statico, come “saper fare”; per la seconda, al contrario, essa va intesa come professionalità in trasformazione, acquisenda, e quindi in senso dinamico, come “saper come fare”.
Il primo criterio è quindi più rigido, perché mira a mantenere la professionalità raggiunta dal lavoratore, così com’è; il secondo è invece più flessibile, perché consente di tenere conto anche dei possibili sviluppi della professionalità del lavoratore che conseguono alla acquisizione di nuove capacità professionali, corrispondenti alle nuove mansioni assegnate.
Secondo la tesi più rigida della tutela della professionalità pregressa, la massima che sovente si ripete nella giurisprudenza è quella che richiede due condizioni contemporanee: la prima, di tipo oggettivo, richiede che le mansioni di destinazione siano inquadrate nello stesso livello contrattuale di quelle di partenza; la seconda, di tipo soggettivo, richiede che le nuove mansioni consentano l’utilizzazione, il perfezionamento e l’accrescimento, del corredo di nozioni, esperienza e perizia acquisito nella fase pregressa del rapporto .
E’ esattamente la massima riprodotta anche nella sentenza qui in commento, che si inserisce pertanto in questo filone più rigido.
Ciò significa che ci deve essere una tendenziale omogeneità, continuità, assimilabilità dei contenuti professionali delle nuove mansioni rispetto alle precedenti.
E’ stato anche osservato che lo ius variandi è legittimamente esercitato solo se lo spostamento avviene fra mansioni che appartengono alla stessa “area professionale”.
La collocazione delle nuove mansioni nello stesso profilo o declaratoria contrattuale di quelle di provenienza è dunque indice necessario, ma non sufficiente, del rispetto del criterio dell’equivalenza .
L’esame della copiosa giurisprudenza sul tema, consente poi di constatare l’elaborazione di una serie di indici rivelatori dell’equivalenza: essi vengono usati dalla giurisprudenza (in modo analogo a quanto avviene per gli indici rivelatori della subordinazione) per stabilire, appunto, l’avvenuto rispetto o meno del requisito dell’equivalenza, combinati tra loro in vari modi, a seconda delle varie pronunce. Tra di essi si possono citare i seguenti principali: la posizione gerarchica raggiunta , l’autonomia decisionale e la responsabilità operativa , il potere di controllo sugli altri lavoratori , il grado di soggezione e controllo cui il lavoratore è sottoposto, le aspettative di carriera professionale , il grado di rischio e l’aggravio delle mansioni , il prestigio nell’organizzazione aziendale , la varietà e la quantità delle mansioni , ecc..
E’ lo stesso status socio-tecnico-professionale che, insomma, i giudici hanno di mira nel loro intento di tutela e che non può essere compromesso né modificato.
Di fronte a tanta rigidità, tuttavia, s’è osservato che, specie in periodi di situazioni economiche meno favorevoli o in fasi di vera e propria recessione, una tutela siffatta può finire con ritorcersi a danno del lavoratore, laddove al restringimento degli spazi dell’equivalenza si finisca per far corrispondere uno spazio inevitabilmente più ampio al giustificato motivo oggettivo di licenziamento. In altre parole, laddove il datore di lavoro non possa adibire il lavoratore a mansioni diverse, ancorché non rigidamente equivalenti, quando le mansioni originarie non servano più, il rischio è quello del licenziamento; ed allora, al fine di scongiurare tale risultato, la giurisprudenza stessa s’è trovata a dover allargare le maglie dell’equivalenza .
S’è così fatta spazio anche quella seconda interpretazione della norma di cui si diceva sopra, più flessibile e volta ad interpretare la professionalità in senso dinamico.
Su tale strada, peraltro, va subito segnalato che mentre la dottrina ha avanzato piuttosto risolutamente , la giurisprudenza è stata assai più tentennante e talora, come dimostrato anche dalla sentenza in commento, persino recalcitrante: sicché s’è affermato che “non riesce ancora a farsi strada una interpretazione più elastica fondata sull’identità di valore professionale di mansioni anche molto diverse fra loro” .
Tra le teorie riconducibili a questo filone, per così dire, della flessibilità vi è quella che ritiene fattibile un giudizio comparativo, globale e complessivo, tra gli elementi che caratterizzano la posizione professionale del dipendente, ammettendosi quindi una compensazione tra gli elementi migliorativi e quelli peggiorativi.
Altri hanno invece preferito tentare di battere la strada della valorizzazione delle potenzialità professionali del lavoratore, ammettendo quindi anche modificazioni importanti della attività lavorativa, laddove essa possa avere “radici comuni” a quella precedente e sottolineando altresì la necessità, per un verso, e l’obbligo del lavoratore, per l’altro verso, di accompagnare tali cambiamenti di mansioni ad una adeguata formazione o riqualificazione professionale.
La tesi troverebbe spunti di sostegno, da un lato, nel disposto dell’art. 56 del D. Lgs. 29/1993 (poi divenuto art. 52 del D. Lgs. 30 marzo 2001 n. 165) sul lavoro nelle pubbliche amministrazioni, che allarga l’ambito dell’obbligo lavorativo del dipendente, predefinendo come equivalenti, tra l’altro, tutte le mansioni riconducibili nella stessa classificazione professionale dalla contrattazione collettiva ; dall’altro lato, nelle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro, quali l’art. 22 del D. Lgs. 626/94 o, adesso, l’art. 20 (in particolare secondo comma, lettera h) e l’art. 37 del D. Lgs. 81/2008, che hanno introdotto specifici obblighi di formazione a carico dei lavoratori. Tali norme, sia la vecchia (art. 22, c. 2, lett. b) che la nuova (art. 37, c. 4, lett. b), prevedono infatti uno specifico supplemento di formazione in occasione di ogni “cambiamento di mansioni”: il che pare implicitamente confermare che anche cambiamenti di mansioni che comportino necessità di nuova e specifica formazione, siano consentiti .
Tuttavia, come s’è rilevato, la giurisprudenza, specie di legittimità, stenta ad imboccare questa via di una maggiore flessibilità e resta per lo più ancorata alla nozione stereotipata di equivalenza a presidio della professionalità acquisita.
Neanche alla contrattazione collettiva, alla quale pur viene riconosciuta una competenza tradizionale e principale nella materia della classificazione delle mansioni e delle qualifiche, viene riconosciuto un ruolo decisivo, poiché la qualificazione contrattuale viene considerata “un affidabile indice dell’equivalenza”, ma non vincola in modo assoluto il giudice .
Quanto ad eventuali patti individuali di spostamento a mansioni inferiori, pur ostandovi la nullità dei patti contrari di cui all’art. 2103, secondo comma, già ricordata, vi è tuttavia giurisprudenza che ha finito ugualmente per riconoscerne la legittimità, qualora diretti ad evitare il licenziamento.
Emblematica della difficoltà di pervenire a criteri uniformi di soluzione dei casi concreti pare essere la soluzione opposta data a due casi del tutto simili concernenti due procuratori legali, pur partendo entrambe le sentenze da una affermazione di principio identica: “nell’ambito della struttura legale, ai singoli avvocati e procuratori possono essere affidati differenti compiti di contenuto e di importanza diversi, purché abbiano attinenza con la professione legale”. Ci si riferisce a Pretura Roma 20 febbraio 1995, che negava legittimità al trasferimento di un procuratore legale, con esperienza in materia di contratti di finanziamento, alla Direzione Bilancio dell’IMI per l’esame di problematiche fiscali, e a Cass., SS. UU., 24 aprile 1990 n. 3455 che, nel caso di un avvocato dell’ufficio legale dell’ENI trasferito a mansioni di puro e semplice studio e documentazione giuridica, con conseguente esclusione da incarichi giudiziari, riteneva invece legittimo il cambiamento.
In definitiva, paiono tuttora attuali, stanti le incertezze giurisprudenziali sopra esaminate, e pienamente condivisibili, le conclusioni tratte dalla Prof. Brollo nel suo lavoro citato : “la conclusione è che la nozione di equivalenza ha un contenuto ‘elastico’: pur essendo imperniato su un parametro preciso (la professionalità del lavoratore), risulta sostanzialmente ‘aperto’, espresso in forma analoga a quella di una clausola generale ‘in bianco’ che rinvia a ‘dati di tipicità ambientale’, cioè alla razionalità materiale dell’economia e ai rapporti di mercato sui quali interagiscono le organizzazioni sindacali in un certo momento storico ed in uno specifico contesto aziendale. Sicché l’indeterminabilità, in termini astratti, del concetto di equivalenza professionale depone a favore della tesi di un rinvio alla ‘coscienza sociale’ espressa in un determinato momento e contesto vuoi dal potere sindacale, vuoi dal potere giudiziario. Ne consegue che per fornire una nozione di equivalenza bisogna passare in rassegna le decisioni giudiziali e i testi negoziali, con la lente della tutela effettiva della professionalità della persona-lavoratore.
Su un piano contingente, rimane tutta la difficoltà di individuare parametri e criteri precisi al fine di stabilire quali siano i livelli di garanzia e di protezione al di sotto dei quali non è possibile scendere in una determinata realtà socio-economica.”
Conegliano, lì 8 gennaio 2009.
Avv. Pietro Scudeller

(riproduzione vietata in qualsiasi forma)

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