Dic 15

La prima sentenza sui licenziamenti…

…dopo la Riforma Fornero. Un commento di Pietro Scudeller alla sentenza, apparso su La Circolare di Lavoro e Previdenza n. 46/2012, che costituisce la 29° pubblicazione giuridica dell’autore.

La Riforma Fornero (l. 28.06.2012 n. 92, in vigore dallo scorso 18 luglio) ha modificato l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (l. 300/1970) prevedendo per i licenziamenti disciplinari, una nuova disciplina, che differenzia le conseguenze sanzionatorie dei licenziamenti disciplinari illegittimi in due ipotesi:
ipotesi A (nuovo 4° comma dell’art. 18): 1) se il fatto non sussiste o 2) se rientra tra i casi previsti dal c.c.n.l. come punibili solo con sanzioni conservative (richiami, rimproveri, multe, sospensioni, ma non il licenziamento), è prevista, come in passato, la reintegrazione e il risarcimento del danno; il risarcimento sarà però di un massimo di 12 mensilità e da esso sarà deducibile sia il perceptum che il percipiendum, cioè sia quanto il lavoratore ha percepito medio tempore sia quanto avrebbe potuto percepire usando l’ordinaria diligenza nella ricerca e conservazione di un altro posto di lavoro.
Il versamento dei contributi sulle mensilità risarcitorie avviene con interessi, senza sanzioni e deducendo anche la contribuzione maturata altrove. In sostituzione della reintegrazione il lavoratore può chiedere le 15 mensilità, senza contributi.
Ipotesi B (nuovo 5° comma dell’art. 18): in tutte le altre ipotesi, si prevede solo un risarcimento economico tra 12 e 24 mensilità, sulla base dei seguenti criteri, che il giudice è tenuto a motivare specificatamente: 1) anzianità del lavoratore; 2) numero di dipendenti occupati; 3) dimensioni dell’attività economica; 4) comportamento e condizioni delle parti.
Su questa nuova disciplina è ora intervenuta la prima sentenza di primo grado: si tratta della sentenza 15 ottobre 2012 n. 263 del Tribunale di Bologna, Sezione lavoro, estensore Dott. Maurizio Marchesini, che ha disposto la reintegrazione effettiva nel posto di lavoro di un lavoratore che era stato licenziato da un’impresa metalmeccanica per aver scritto ad un superiore gerarchico, in una mail, la seguente frase: “parlare di pianificazione nel Gruppo … è come parlare di psicologia con un maiale, nessuno ha il minimo sentore di cosa voglia dire pianificare una minima attività in questa azienda”.
Il giudice felsineo ha ritenuto il licenziamento illegittimo per la non particolare gravità dell’offesa, per il contesto dal quale era scaturita e per le scuse subito dopo date dal dipendente, oltre che per la sua incesuratezza disciplinare in pendenza di rapporto lavorativo iniziato nel luglio 2007; in questa sede non commenteremo questa valutazione sulla gravità o meno della violazione disciplinare del dipendente e sulla illegittimità o meno del licenziamento. Quel che qui interessa commentare è invece l’applicazione che il giudice ha fatto della nuova disciplina dell’art. 18 e dei motivi dallo stesso indicati per la scelta dell’opzione A, tra le due sopra descritte, cioè per la riconduzione, dallo stesso operata, della fattispecie concreta tra le ipotesi previste dal legislatore come ancora punibili con la massima sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro ed il pagamento di tutte le retribuzioni perdute dal lavoratore (con il limite, in questo caso non superato, delle 12 mensilità), oltre al risarcimento del danno.
Il giudice di Bologna ha dunque ritenuto di poter ricondurre il licenziamento tra quelli per i quali il fatto non sussiste o è previsto dal ccnl come punibile con sole sanzioni conservative; nella motivazione della sentenza si legge che sussisterebbero tutte e due le condizioni, sia l’insussistenza del fatto, sia la riconducibilità della offesa alle ipotesi tipizzate dal ccnl e punite con sanzioni solo conservative.
La prima condizione ricorrerebbe, secondo il giudice, in quanto, pur essendo pacifico il fatto materiale dell’avvenuto invio della mail con quella frase scritta da quel dipendente, “la norma in questione, parlando di fatto, fa necessariamente riferimento al c.d. Fatto Giuridico, inteso come il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo. Né può ritenersi che l’espressione “insussistenza del fatto contestato”, utilizzata dal legislatore facesse riferimento al solo fatto materiale, posto che tale interpretazione sarebbe palesemente in violazione dei principi generali dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza ed alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo, posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato, anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura privi dell’elemento della coscienza volontà dell’azione.”
La seconda condizione pure ricorrerebbe, in quanto “l’art. 9 Sez. 4° Titolo 7° C.C.N.L. Metalmeccanici 2008, applicabile al rapporto di lavoro in questione, prevede espressamente solo sanzioni conservative, nella diversa gradazione ivi contemplata, per la fattispecie della c.d. “lieve insubordinazione nei confronti dei superiori”, previsioni in cui rientra palesemente, per le ragioni sopra esposte, il fatto commesso dal ricorrente.”
Si analizzi allora la prima delle due condizioni esposte.
Qui, secondo il sottoscritto, la motivazione del giudice felsineo risulta erronea e non condivisibile.
Egli scrive infatti che il “fatto” cui si riferisce il legislatore della Riforma Fornero, quando parla di “insussistenza del fatto contestato”, debba essere inteso non come mero fatto materiale, che nel caso giudicato riconosce essere pacifico ed incontestato tra le parti, bensì al fatto giuridico, inteso come insieme di fatto materiale (“componente oggettiva” egli scrive) e “elemento soggettivo” o “elemento psicologico”.
Ebbene questa definizione del fatto giuridico non è condivisibile: che nel fatto giuridico si possa far rientrare anche l’elemento psicologico dell’autore del fatto, è tesi originale del giudice, che contrasta con gli insegnamenti esistenti in materia di fatto giuridico. In diritto, infatti, il “fatto”, sia materiale che giuridico, rimane sempre del tutto distinto dall’elemento psicologico o dalla coscienza e volontà del soggetto agente che lo compie.
Il fatto giuridico è definito, infatti, come il fatto (materiale) di una qualche rilevanza giuridica: dice il TRABUCCHI “i fatti della vita, che portano conseguenze giuridicamente rilevanti nelle relazioni tra gli uomini, si considerano fatti giuridici. La nascita, per esempio, è un fatto al quale la legge collega l’esistenza di molti diritti (…); … una bastonata fa sorgere nella vittima il diritto al risarcimento, e così via.”
In relazione ad un singolo fatto, quindi, non vi può essere giuridicamente alcuna distinzione tra fatto materiale e fatto giuridico, perché si tratta sempre dello stesso fatto che assurge, o meno, anche a rilevanza giuridica.
Per fatto giuridico si intende quindi, piuttosto, quella fattispecie astratta che la legge considera al fine di ricollegarvi determinate conseguenze giuridiche; potendosi distinguere quindi tra fattispecie semplici (come la nascita) e complesse (come il matrimonio, che richiede una sequenza di atti e formalità).
Cosicché si può concludere che laddove il legislatore della riforma Fornero ha scritto di “insussistenza del fatto contestato” si è voluto riferire proprio al fatto materiale (come delineato e descritto nella contestazione).
La digressione del giudice relativa alla illegittimità di una siffatta interpretazione, che riferisse al fatto del legislatore il significato di fatto materiale, è dunque fuorviante: egli infatti confonde i presupposti di legittimità del licenziamento (tra i quali vi è senz’altro anche la volontarietà dell’azione del lavoratore), con il criterio distintivo introdotto dal legislatore della novella tra le diverse conseguenze sanzionatorie di un licenziamento illegittimo.
Che significa, infatti, che si sarebbe in presenza di una “palese violazione dei principi generali dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza ed alla buona fede”?
Ciò si dovrebbe argomentare dal fatto che in tal modo si potrebbe giungere ad applicare “la sanzione del licenziamento indennizzato” anche a comportamenti del lavoratore privi di imputabilità soggettiva, addirittura di coscienza e volontà dell’azione.
Qui il giudice felsineo innanzitutto mostra di rovesciare il dato normativo, laddove definisce “sanzione del licenziamento indennizzato” un licenziamento illegittimo: un licenziamento illegittimo, infatti, non è una sanzione, che sarebbe legittima, ma è semplicemente un atto illecito, al quale consegue un indennizzo previsto dal legislatore per riparare giustamente quella illiceità. Non esiste quindi la “sanzione del licenziamento indennizzato”, ma esiste solo la sanzione del licenziamento (legittimo), che, se invece illegittima, fa scaturire le conseguenze previste dalla legge. L’espressione usata dal giudice tradisce quindi un’opinione politica (o un’opinione giuridica datata, fondata sul vecchio art. 18, che non corrisponde più al diritto vigente): quella di ritenere inadeguata al licenziamento, ingiusta rispetto ad esso, la sanzione dell’indennizzo economico stabilita dal legislatore, che finirebbe per autorizzare licenziamenti, per così dire, “con il solo onere dell’indennizzo”. Ma ciò che può sembrare al giudice Marchesini solo un onere, al legislatore è invece apparsa una sanzione risarcitoria adeguata e giusta.
Ma soprattutto il giudice felsineo pretende di ricondurre le valutazioni sulla gravità del fatto o del comportamento del lavoratore, che certamente ben devono tener conto anche del grado di intensità psicologica della sua azione (se volontaria, colposa, dolosa, ecc.) alla nozione del fatto contestato, e pertanto alle conseguenze sanzionatorie di un licenziamento illegittimo.
Ciò che è errato, come sopra anticipato, perché si tratta di concetti ben diversi e di fasi del giudizio del giudice ben diverse: l’elemento psicologico dell’azione, dell’atto del lavoratore è sì elemento necessario per integrare il fatto giuridico e quindi per decidere circa la legittimità o meno del licenziamento irrogato.
Ma non qualsiasi licenziamento illegittimo deve portare per conseguenza alla “insussistenza del fatto contestato” e quindi alla reintegrazione.
Soltanto laddove venga meno anche la corrispondenza tra fatto accertato come accaduto e fatto descritto nella contestazione, si potrà avere tale conseguenza; ed in questa analisi il “fatto contestato” non corrisponde affatto al “fatto giuridico”.
Va infatti rilevato che il fatto cui il legislatore si è riferito è il “fatto contestato”.
La verifica del giudice deve quindi essere svolta in relazione al fatto così come contestato dal datore di lavoro: è la contestazione che permette di delineare tutte le caratteristiche dell’addebito che viene imputato al lavoratore; è il fatto contestato, in altre parole, a divenire elemento discretivo, che permette di giudicare la correttezza del comportamento del datore di lavoro e quindi la possibilità o meno di ricorrere alla sanzione reintegrativa.
Dunque occorre distinguere: la ricorrenza di tutti gli elementi idonei a configurare l’illecito del lavoratore (una condotta, cioè un atto, oppure un fatto, inteso come l’accadimento conseguente alla condotta; l’elemento psicologico del suo autore, cioè la ricorrenza di una colpa; l’eventuale danno verificatosi; ed il nesso causale tra condotta e danno), cioè il fatto giuridico necessario a configurare un valido licenziamento, così come il relativo esame da parte del giudice in sede giudiziale, servono a configurare o meno il fatto che ha dato origine al procedimento disciplinare e consentono perciò di determinare se il licenziamento è lecito o illecito (proporzionato, tempestivo, non altrimenti – da motivi discriminatori – motivato, con tutte le sue caratteristiche di gravità tali da legittimare la sanzione più grave del licenziamento, anche al di là delle previsioni del contratto collettivo, ecc.); ma non a determinare le conseguenze dell’eventuale illegittimità del licenziamento, cioè a quale regime sanzionatorio (per il datore di lavoro) si ricolleghi l’illiceità del licenziamento.
Quest’ultima, invece, secondo il disposto del novellato quarto comma dell’art. 18 L. 300/1970, si distingue a seconda che sussista o meno “il fatto contestato.”
Sotto tale profilo, peraltro, è ben possibile che nella contestazione del caso de quo, che non è dato di conoscere, vi fossero degli elementi descrittivi della condotta del lavoratore tali da permettere al giudice di inferirne la mancanza in sede di verifica giudiziale, eventualmente anche sotto il profilo dell’elemento psicologico del lavoratore: se così fosse stato, tuttavia, ben diversa, comunque, avrebbe dovuto essere la motivazione del giudice, che a tali elementi, se presenti nella contestazione, avrebbe dovuto fare espresso riferimento.
In ogni caso nell’usare l’espressione “insussistenza del fatto contestato”, pare evidente che il legislatore abbia voluto punire più o meno severamente il datore di lavoro (e, sull’altro fronte, tutelare più o meno fortemente il lavoratore), sulla base del grado di sua colpevolezza nell’aver intimato un licenziamento illegittimo: ritenendo di regola bastevole la sanzione economica (come previsto nell’art. 8 L. 604/1966, della quale infatti vengono richiamati i criteri di commisurazione dell’entità dell’indennità), mentre abbia voluto riservare ai casi più madornali di illegittimità la sanzione più pesante della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, sommata al risarcimento economico.
Come si verifica dunque il grado di colpevolezza del datore di lavoro? In base alla veridicità del fatto contestato, come primo criterio (ipotesi A suddetta).
Se dunque ciò che è stato contestato al lavoratore è vero, è accaduto realmente, la reintegrazione è sempre esclusa, a prescindere da ogni considerazione sulla gravità della mancanza da parte del lavoratore (che semmai incide prioritariamente sulla illegittimità del licenziamento); e quindi, tanto più, a prescindere dal grado della sua colpevolezza nella commissione (o omissione) in cui è consistita la mancanza.
In questa indagine, allora, sarà più che legittimo e doveroso verificare che il fatto sia accaduto in tutti i particolari o le caratteristiche che sono descritte nella contestazione; è qui, quindi, che, ad esempio, se il datore di lavoro ha fatto riferimento ad una particolare intensità psicologica del lavoratore nella commissione del fatto, dell’eventuale assenza di essa nella realtà si dovrà tener conto (per concludere, possibilmente, che il fatto contestato non sussiste).
Ovviamente anche questa indagine di corrispondenza dovrà svolgersi sì con rigore, ma, a parere del sottoscritto, con un rigore non eccessivo: non tutti i dettagli della descrizione fatta dal datore di lavoro dovranno essere necessariamente riscontrati, bensì tutti quegli aspetti, sia pur anche secondari, che, essendo stati descritti, siano però tali da poterne indurre che essi abbiano inciso sulla determinazione del datore di lavoro al licenziamento.
Ne discende la particolare delicatezza del momento di redazione della lettera di licenziamento e della indicazione dei motivi di esso (che nei licenziamenti “economici”, ove si pone la stessa problematica alternativa sanzionatoria, a norma del novellato art. 7 L. 604/1966, devono essere pure anticipati alla prima comunicazione).
Né pare al sottoscritto si possa obiettare a tale ricostruzione interpretativa che ne risulterebbe una disciplina ingiusta, perché al datore di lavoro basterebbe contestare una qualsiasi sciocchezza del lavoratore, una qualsiasi mancanza bagatellare, che egli sarebbe garantito dall’evitare il rischio di una reintegrazione; non si può fare questa obiezione perché la sanzione alternativa del risarcimento economico non va considerata una sanzione insufficiente, bensì la sanzione ordinaria e normale per un licenziamento illegittimo, ritenuta di regola giusta e bastevole dal legislatore, anche, eventualmente, per licenziamenti gravemente illegittimi (ma non così gravi da potersi ricondurre ad una delle due ipotesi per le quali si prevede il rimedio della reintegrazione).
Non è quindi che il legislatore abbia voluto predisporre il rimedio della reintegrazione per le mancanze del lavoratore più lievi e il risarcimento economico solo per le mancanze più gravi (ancorché insufficientemente gravi da rendere legittimo il licenziamento), come pare potersi desumere dalla sentenza qui commentata che, appunto, confonde fatto contestato con fatto giuridico.
Il grado della gravità del fatto o dell’atto del lavoratore, lo si ripete, incide sulla legittimità o meno del licenziamento; ma non, pel caso di illegittimità, sulla conseguenza sanzionatoria di esso.
E’ vero invece che il legislatore, a prescindere dalla gravità della mancanza del lavoratore, ha stabilito la conseguenza di un indennizzo solo economico come regola; salvando tuttavia, come tendenziale eccezione, la conseguenza più grave anche della reintegrazione, laddove il comportamento del datore di lavoro si sia rivelato più fortemente scorretto. Prevedendo tre casi di scorrettezza del datore di lavoro talmente grave (e correlativamente di ingiustizia troppo grave nella perdita del posto di lavoro per il lavoratore) da meritare la reintegrazione: i casi di licenziamento discriminatorio; i casi nei quali alla verifica giudiziale risulta non vero il fatto contestato al lavoratore (il datore di lavoro s’è inventato una scusa, invero inesistente, per licenziare); i casi nei quali era evidente che si doveva procedere ad irrogare soltanto una sanzione conservativa, e non il licenziamento, perché tale era la disciplina espressamente prevista nel ccnl.
Si può quindi ora analizzare anche la seconda parte della motivazione della sentenza in commento, laddove il giudice felsineo ha ritenuto che la violazione rientrasse tra i casi di “lieve insubordinazione”, previsti dall’art. 9 del ccnl metalmeccanici come punibili solo con sanzioni conservative.
Qui sta il punto davvero criticabile della Riforma Fornero: è frequente infatti il caso, nei ccnl esistenti, della distinzione tra mancanze definite “lievi”, per le quali la previsione del ccnl è di sanzione conservativa, e mancanze identiche definite però “gravi”, per le quali si prevede nello stesso ccnl la sanzione del licenziamento.
Ciò significa che in tutti i casi di comportamenti in qualche modo riconducibili a queste ipotesi (ad esempio “insubordinazione”), si lascia al giudice una discrezionalità amplissima circa la scelta del rimedio da applicare al licenziamento ritenuto illegittimo, reintegrazione e risarcimento o solo risarcimento economico, essendo sempre possibile e facilmente possibile per il giudice motivare circa una ritenuta maggiore o minore levità o gravità del caso.
Il ccnl in questione, per esempio, distingue, infatti, tra “lieve insubordinazione”, “insubordinazione” (non qualificata) e “grave insubordinazione”, ricollegandovi rispettivamente sanzioni conservative, licenziamento con preavviso e licenziamento senza preavviso: quale sia il criterio per stabilire con un minimo di oggettività quando una insubordinazione sia lieve, quando sia intermedia, cioè né lieve né grave, e quando sia grave, non si sa e non è facile da stabilire: la discrezionalità del giudice la fa da padrone.
Tuttavia, se questa critica al legislatore della novella è giusta, tanto più sarà vero che particolarmente preciso, rigoroso e ben motivato dovrà essere il procedimento di sussunzione, da parte del giudice, della fattispecie concreta nella fattispecie astratta contrattual collettiva.
Maggiore è infatti la discrezionalità lasciata al giudice e maggiore sarà il rigore di motivazione pretendibile dallo stesso.
Alla luce di ciò, anche questa parte della motivazione nella sentenza che ci occupa, appare, non solo probabilmente insufficiente sotto il profilo dell’illustrazione dei criteri per la qualificazione dell’insubordinazione come lieve, anziché normale o grave, ma altresì erronea per aver sussunto la fattispecie concreta nella fattispecie astratta “insubordinazione”.
L’insubordinazione infatti consiste nella mancata esecuzione di ordini ricevuti: ma nel caso di specie la mancanza caratteristica del lavoratore non è stata una trasgressione agli ordini, bensì l’uso di una espressione ingiuriosa nei confronti di un superiore: che è comportamento del tutto diverso dall’insubordinazione.
Il giudice, tuttavia, ha ritenuto di ricondurre ad insubordinazione un fatto che non era tale, potendosi poi giovare di quell’ampia discrezionalità di cui si è detto or ora circa la qualificazione del grado di levità/gravità della medesima. Tale riconduzione, peraltro, ha operato, senza alcuna motivazione, cioè senza soffermarsi affatto sul perché l’ingiuria (o espressione irrispettosa) dovesse qualificarsi come insubordinazione, bensì dando per scontata tale qualificazione.
Anche questa seconda parte della motivazione, dunque, appare non condivisibile e destinata ad essere riformata, come l’intera sentenza.
Conegliano, 2 novembre 2012. Pietro Scudeller
Avvocato e Consulente del lavoro in Conegliano e Treviso

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