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Trasferimento e licenziamento per incompatibilità ambientale

(Articolo dell’Avv. Pietro Scudeller pubblicato su Il Giurista del Lavoro n. 3/2009).

Cassasione civile, Sez. Lav., 02 settembre 2008 n. 22059:
“In tema di esercizio del cd. “ius variandi”, deve considerarsi legittimo il provvedimento adottato dal datore di lavoro che, al fine di conservare un clima sereno nell’ambiente di lavoro, dispone il trasferimento di un lavoratore, il cui comportamento è origine di continui contrasti, purché vengano garantite a quest’ultimo mansioni equivalenti.”
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Sovente s’è fatto ricorso in giurisprudenza alla locuzione “incompatibilità ambientale” per descrivere una situazione di difficoltà di rapporti per un lavoratore con altri lavoratori (colleghi o superiori gerarchici) tale da ingenerare disorganizzazione e disfunzione all’interno di una azienda .
Si è posto quindi il problema, in casi siffatti, di quali siano i poteri legittimamente esercitabili dal datore di lavoro per risolvere tali disfunzioni o disorganizzazioni e di quali siano, quale ovvio contraltare, i diritti del lavoratore che è causa, eventualmente anche suo malgrado, di una tale disfunzione.
Le situazioni concrete esaminate dalla giurisprudenza e ricondotte alla fattispecie così detta della incompatibilità ambientale sono peraltro talvolta diverse e non sempre esattamente le stesse; come pure i provvedimenti presi dal datore di lavoro e sottoposti al vaglio dei giudici sono diversi, anche se sostanzialmente riconducibili a due: il trasferimento del lavoratore o il suo licenziamento.
Nell’insieme della giurisprudenza pronunciatasi su questi casi, tuttavia, si può scorgere un filo conduttore comune che ne consente un esame sostanzialmente unitario, salve le specificazioni opportune per ciascuno di essi.
Prima di passare quindi all’esame della giurisprudenza sulla questione, va premesso altresì che il referente legislativo dell’istituto, in relazione al rapporto di lavoro pubblico contrattuale, si trovava nell’articolo 32 del d.p.r. 10 gennaio 1957 n. 3, il quale così enunciava: “Il trasferimento da una ad altra sede può essere disposto anche quando la permanenza dell’impiegato in una sede nuoce al prestigio dell’ufficio.”
Tale norma è stata però poi abrogata dall’articolo 43, 5° comma, del D. lgs. 31 marzo 1998 n. 80 ed oggi dall’art. 72, 1° comma, lett. a), del D. Lgs. n. 165 del 2001.
L’istituto ha tuttavia continuato a trovare un’applicazione di fatto, sia nell’impiego pubblico sia nell’impiego privato, ancorché tramite l’applicazione, per via interpretativa, di norme diverse e più generali.
Le norme di legge che vengono in rilievo nell’impiego privato sono l’art. 2103 c.c. per quel che riguarda i trasferimenti e l’art. 3 L. 15.07.1966 n. 604 per quel che riguarda i licenziamenti individuali.
I presupposti, come noto, nelle due norme sono analoghi: “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” (per i trasferimenti “da una unità produttiva ad un’altra”) nel 2103 c.c. e “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa” nell’art. 3 L. 604/1966.
Ben diverse sono però, come noto, le discipline procedimentali dei due provvedimenti.
La questione dell’incompatibilità ambientale si è posta subito con un profilo di ambivalenza, che ha dato luogo ad ampi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali: si è posto, infatti, il problema se un provvedimento di trasferimento o di licenziamento di un lavoratore ritenuto in situazione d’incompatibilità ambientale fosse da ritenersi di natura punitiva e perciò disciplinare, con la conseguente necessità o meno di applicare ad esso le garanzie procedimentali dei provvedimenti disciplinari.
Al riguardo, la prima giurisprudenza si orientava nel senso di negare legittimità al trasferimento disciplinare: o per la ritenuta riconducibilità della fattispecie ad ipotesi di rilevanza meramente soggettiva ; oppure, nella sentenza che può ritenersi la prima della Cassazione che affronta la questione, la n. 832 del 1975 , in quanto si nega legittimità al trasferimento disciplinare perché sanzione atipica. Questa stessa sentenza, tuttavia, apre la strada per “l’idea che un comportamento del dipendente – dovuto alla sua ‘indole’ (difficoltà di rapporti o contrasti con colleghi, superiori, clientela o, più in generale, con l’ambiente di lavoro) – possa essere valutato non in sé ma per le sue conseguenze negative sul normale svolgimento delll’attività dell’impresa in termini di disfunzione del servizio o di disorganizzazione dell’unità produttiva. (…) In questa prospettiva, i motivi ‘soggettivi’ vengono trasfusi nelle …conseguenze ‘oggettive’ degli stessi. ”
La distinzione tra natura oggettiva o soggettiva della situazione, che è tipica della disciplina del licenziamento (art. 3 sopra citato) si trasferisce quindi all’analisi della causa di un provvedimento di trasferimento.
Ciò avviene forse per influenza della disciplina in materia di lavoro pubblico sopra richiamata, ma anche in analogia con altre ipotesi di tipo “soggettivo” che vengono poste a base di licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, quali la sopravvenuta inidoneità fisica, la carcerazione preventiva o la eccessiva morbilità.
Negli anni successivi, invece, la giurisprudenza si evolve verso un inquadramento di tali situazioni direttamente nell’ambito esclusivo dell’art. 2103 c.c. ; ovvero nella soluzione di quel filone, che risulta senz’altro maggioritario, che riconosce che nel comportamento del dipendente può essere configurabile, al tempo stesso, sia un fatto rilevante sotto il profilo disciplinare, sia una delle ragioni tecniche, organizzative e produttive che consentono, a norma dell’art. 2103 c.c., il trasferimento del dipendente medesimo. Tale giurisprudenza riconosce, vieppiù, al datore di lavoro di fare ricorso all’uno o all’altro dei provvedimenti suddetti, senza che, se viene scelto il trasferimento, questo possa essere ritenuto illegittimo in quanto sanzione atipica rispetto ai provvedimenti disciplinari.
Viene quindi ribadita la natura non disciplinare del provvedimento di trasferimento, ma viene affermato che, in tali situazioni, il datore di lavoro può scegliere tra due alternative, entrambe valide e percorribili: o il ricorso ad un trasferimento o il ricorso ad un procedimento sanzionatorio di tipo disciplinare.
Con la evidente conseguenza che tale “sdoppiamento” di rimedi fa sì che nel caso in cui il datore di lavoro opti per la soluzione del trasferimento, ad esso non saranno applicabili le garanzie formali e procedimentali tipiche dei provvedimenti disciplinari (esposizione del codice, previa contestazione, spatium deliberandi di cinque giorni, forma scritta, possibilità di sospensione dell’applicazione, come disciplinate dall’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori), bensì solo quelle, ben minori e limitate, di un controllo giurisdizionale a posteriori sulla esistenza dei presupposti previsti dall’art. 2103 c.c..
Inaugura tale filone una sentenza della Cassazione a Sezioni Unite, la n. 4747/1986 : “Ciò che legittima, sul piano sostanziale, il potere dell’imprenditore di trasferire il proprio dipendente è l’esistenza delle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, e, sul piano formale o procedimentale, che tali ragioni siano comunicate al lavoratore, anche oralmente, quando siano richieste.
Ove, in ipotesi, una delle ragioni del trasferimento comunicate al lavoratore non venga provata o risulti insussistente, tale insussistenza o tale mancata prova non può da sola travolgere la validità della dichiarazione negoziale, salvo che l’interessato a tale evenienza non dimostri che la dichiarazione di volontà del datore non sarebbe venuta in essere ove il dichiarante avesse avuto consapevolezza dell’insussistenza di una delle ragioni enunciate.”
Seguita poi da numerose altre.
Esemplare, in tale filone, Cass. lav. 9 marzo 2001 n. 3525 : “Il trasferimento del dipendente dovuto ad incompatibilità aziendale, trovando la sua causa nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive previste dall’art. 2103 cod. civ., piuttosto che, sia pur atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che il relativo provvedimento datoriale non può essere dichiarato illegittimo per inosservanza delle garanzie sostanziali e procedimentali di cui all’art. 7 legge 300 del 1970” (nella fattispecie trattavasi di impiegato di banca trasferito per essere stato sottoposto a procedimento penale per operazioni effettuate nella filiale di provenienza).
Anche Cass. civ., sez. lav., 16 giugno 1987 n. 5339 è assai esplicita: “Allorquando nel comportamento del dipendente sia insieme configurabile un fatto rilevante sotto il profilo disciplinare ed una delle ragioni tecniche, organizzative e produttive che consentono, a norma dell’art. 2103 (nuovo testo) c.c., il trasferimento del lavoratore medesimo (e che comprendono anche quelle situazioni d’incompatibilità ambientale costituenti causa di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva), il datore di lavoro può, nel legittimo esercizio dei suoi poteri disciplinari od organizzatori, far ricorso all’uno o all’altro dei detti provvedimenti, ove ne sussistano i rispettivi presupposti, senza che, ove sia stato disposto il trasferimento, il giudice, investito del controllo di tale atto, possa trarre, dalla sola (prospettata) possibilità alternativa di un provvedimento disciplinare, alcuna conseguenza negativa circa la legittimità del trasferimento stesso.”
Si legga anche Cass. lav. 8 settembre 1989 n. 3889 : “Benché il trasferimento del lavoratore subordinato non costituisca nè possa costituire sanzione disciplinare, è tuttavia possibile che il comportamento del lavoratore integri gli estremi di un fatto disciplinarmente rilevante, come pure può accadere che tale trasferimento trovi giustificazione in una ragione tecnica, organizzativa o produttiva prevista dall’art. 13 legge n. 300 del 1970, come legittimante il trasferimento del lavoratore medesimo. Pertanto, l’imprenditore può, nel legittimo esercizio dei suoi poteri organizzativi e di quelli disciplinari, far ricorso agli uni piuttosto che agli altri, ove ne sussistano i presupposti di legge, senza che sia in potere del giudice, cui è affidato il controllo del provvedimento di trasferimento, valutarne la convenienza o l’opportunità.”
Si segnala, infine, anche Corte d’Appello Firenze, 4 marzo 2003 (in D.L. Riv. critica dir. lav. 2003, 704), per la particolarità dei soggetti coinvolti nel conflitto: “La c.d. ‘incompatibilità ambientale’ che può configurarsi anche quando il conflitto insorga tra lavoratori appartenenti a imprese diverse che operino nella medesima unità produttiva – può legittimare il trasferimento del dipendente ai sensi dell’art. 2103 c.c. solo qualora comporti apprezzabile disorganizzazione del lavoro nell’unità produttiva stessa (nella specie il giudice ha escluso che il contrasto tra un dipendente dell’impresa di pulizia appaltatrice dei servizi presso una stazione FFSS e il responsabile dei controlli della società appaltante avesse effettive conseguenze oggettive sull’organizzazione del lavoro).”
In altra giurisprudenza, infine, si osserva un’ulteriore evoluzione, ancor più favorevole al datore di lavoro, nelle sentenze in cui si arriva a ritenere addirittura che per lo stesso fatto possano essere adottati sia il trasferimento per incompatibilità ambientale sia un provvedimento disciplinare .
Infine la giurisprudenza, in alcuni arresti, rotti oramai – per così dire – gli argini, giunge a dichiarare legittimo altresì il trasferimento come misura disciplinare vera e propria, laddove esso sia previsto come tale dalla contrattazione collettiva.
Tale giurisprudenza ha tuttavia incontrato forti critiche da parte di molta dottrina , la quale ha fatto notare come l’art. 7 comma 4 della L. 300/’70 limiti la gamma delle sanzioni disciplinari, vietando quelle che comportino “mutamenti definitivi del rapporto di lavoro” e come un trasferimento, incidendo sul luogo della prestazione, debba ritenersi senz’altro rientrare tra quelli che comportano un mutamento definitivo del rapporto, vista anche l’importanza data al luogo del lavoro dallo stesso art. 2103 c.c.; inoltre che anche il carattere della definitività del mutamento è intrinseco al trasferimento, che la stessa giurisprudenza assume come carattere distintivo dalla trasferta.
Il trasferimento non potrebbe mai, quindi, assurgere a sanzione disciplinare.
Tali critiche avrebbero poi trovato accoglimento in molta giurisprudenza di merito , ma non in quella di Cassazione , anche se si è osservato che l’orientamento della Suprema Corte è stato perlopiù suggerito dalla necessità di offrire, ovvero imporre, al datore di lavoro un rimedio meno grave di quello altrimenti inevitabile del licenziamento. Una volta cioè ammesso che anche il licenziamento, pur essendo il più tipico dei provvedimenti importanti un mutamento definitivo del rapporto, può avere carattere disciplinare, secondo il ragionamento per cui ove sta il più sta anche il meno, non avrebbe senso negare la possibilità di ricorrere anche al trasferimento punitivo, specie se esso possa costituire soluzione meno grave e conservativa del rapporto, a fronte di una situazione che altrimenti imporrebbe il licenziamento.
Proseguendo su questa linea, le critiche della dottrina citata si sono incentrate anche sul trasferimento per incompatibilità ambientale.
S’è osservato, infatti, che nell’art. 2103 c.c. il potere di trasferimento è esercitabile solo per ragioni oggettive, con esclusione di quelle soggettive: nella disciplina del licenziamento, infatti, la legge distingue espressamente tra ragioni oggettive e soggettive, ammettendole entrambe; nel trasferimento, invece, le ragioni indicate sono solo quelle coincidenti con le ragioni oggettive del licenziamento. A queste obiezioni la Corte, tuttavia, ha risposto dicendo che l’art. 2103 non distingue tra ragioni soggettive ed oggettive (non si sofferma sulla causa), ma richiede soltanto che ricorrano esigenze di carattere tecnico, produttivo o organizzativo (si concentra sugli effetti); e non si può escludere (anzi occorre riconoscere) che, in certi casi, anche il carattere soggettivo di un lavoratore possa produrre degli effetti di disorganizzazione tali da concretizzare quelle esigenze oggettive che giustificano il trasferimento.
La dottrina ha invece insistito nel sostenere l’illegittimità del ricorso al trasferimento per questi casi, soprattutto in considerazione della mancanza delle garanzie procedimentali del trasferimento (non considerabile sanzione disciplinare), sostenendo che o l’incompatibilità ambientale è conseguenza di un comportamento colpevole , inadempiente del lavoratore, ed allora il datore dovrà ricorrere all’unico rimedio assicuratogli dall’ordinamento e cioè al procedimento disciplinare (che, in ipotesi, potrà sfociare anche nella sanzione più grave del licenziamento: e sarebbe proprio questa secca alternativa, senza possibilità di soluzioni intermedie, ad aver suggerito la reazione della Cassazione); oppure l’incompatibilità deriva da caratteri o comportamenti del lavoratore che non costituiscono inadempimento, ed allora le soluzioni della dottrina si fanno più articolate, ammettendosi anche, in ipotesi, un trasferimento, ma a precise condizioni quali: in primis l’esclusione di rilevanza di condizioni personali non gradite (ad esempio la non rispondenza del lavoratore addetto a rapporti con il pubblico ai requisiti aziendali estetici e di comportamento); in secundis, la prova rigorosa che il provvedimento sia idoneo ad eliminare la situazione di incompatibilità; inoltre che il concetto di incompatibilità ambientale sia variato e rapportato alle dimensioni della unità produttiva o dell’azienda interessata; in tertiis, s’è posta persino la questione di quali siano i criteri per la scelta, tra più soggetti coinvolti, del lavoratore da colpire, giungendo a pretendere che “siano forniti criteri idonei a giustificare la scelta” e che vi sia la “possibilità, per il giudice, di sindacare se il datore abbia preso l’unica decisione possibile” .
Pretese, queste ultime, che appaiono peraltro eccessive e contrastanti non solo con la giurisprudenza della Cassazione in tema di trasferimento (che si vedrà poco più oltre) sui limiti del sindacato del giudice all’esecizio del potere datorile, ma anche agli ancor più consolidati orientamenti giurisprudenziali analoghi sui limiti di sindacato in materia di licenziamento: sicché pretendere che addirittura la scelta del lavoratore sia l’unica possibile per il datore di lavoro significa senza dubbio sindacare le scelte di merito organizzative del datore di lavoro, ciò che risulta in contrasto con le libertà costituzionali (art. 41) del medesimo e con il libero esercizio del potere direttivo ed organizzativo dell’azienda.
Infatti in caso di trasferimento il controllo del giudice non potrà estendersi oltre la ragionevolezza e logicità della motivazione adotta, fino ad interessare le scelte di merito organizzative e produttive del datore di lavoro: “il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato deve essere diretto ad accertare la sussistenza delle stesse e la corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell’impresa senza, peraltro, potersi estendere al merito della scelta imprenditoriale, ma essendo sufficiente che concreti una delle scelte ragionevoli che il datore di lavoro può adottare discrezionalmente.” .
Infine, per concludere questo excursus in materia di trasferimento, si legga anche la seguente massima: “Nel caso in cui il trasferimento per incompatibilità ambientale nasconda un comportamento ‘mobbizzante’ del datore o dei colleghi, l’illegittimità del trasferimento può essere ricondotta al fenomeno del ‘mobbing’, al fine di ottenere la reintegra nell’originaria sede di lavoro (Trib. Forlì 15.03.2001, RGL, 2002, II, 103, con nota di FODALE).”
Il contrasto, fin qui riassunto, tra dottrina e molta parte della giurisprudenza di merito da un lato e la quasi unanime giurisprudenza di Cassazione dall’altro, in tema di trasferimento, permette ora, passando al licenziamento per incompatibilità ambientale, di esaminare se le stesse critiche siano estendibili o meno anche ad esso, consentendo di delineare meglio anche i presupposti di legittimità di quest’ultimo.
Si rende allora subito evidente che i motivi di critica dottrinale rivolti al trasferimento per incompatibilità ambientale, sopra elencati, sono applicabili anche al licenziamento per la stessa causa: non, invero, a quello disciplinare, perché un licenziamento di tipo disciplinare, quindi per giustificato motivo soggettivo, non potrebbe, per definizione, prescindere dalle garanzie procedimentali che lo accompagnano; bensì senz’altro a quello per incompatibilità ambientale, quindi per giustificato motivo oggettivo, perché anche in questo caso si riproduce il dubbio di legittimità della trasposizione di motivi che paiono di carattere soggettivo in un provvedimento di rimedio datorile che è definito, e circoscritto a situazioni, di tipo oggettivo: si richiama, al proposito, la suvvista identità delle definizioni contenute negli artt. 3 L. 604/1966 e 2103 c.c..
Con l’aggravante, peraltro, che se nel trasferimento per incompatibilità ambientale la ragione sottesa, ancorché non dichiarata, a molte decisioni della suprema corte era quella di evitare al lavoratore la soluzione più grave della risoluzione del rapporto, nel licenziamento per incompatibilità ambientale questa ragione viene evidentemente meno.
Sarebbe legittimo dunque attendersi un atteggiamento di estremo rigore da parte della giurisprudenza nei confronti del licenziamento per incompatibilità ambientale; che invece non sempre si riscontra, tantomeno nella sentenza qui annotata.
Va da sé che il licenziamento di uno o più lavoratori, quale rimedio ad una situazione di disorganizzazione aziendale, essendo pur sempre un rimedio di extrema ratio, richiederà altresì, rispetto al trasferimento, la impossibilità di risolvere il problema con soluzioni conservative del/i rapporto/i (impossibilità di répèchage), quali il trasferimento medesimo, uno spostamento di posto di lavoro, o di mansioni, o simili (così come ogni altro requisito, anche formale, tipico di ogni licenziamento per g.m.o.).
Vediamo dunque di approfondire ora quali siano i requisiti sostanziali che occorrono per la legittimità del provvedimento risolutivo datorile, alla luce della giurisprudenza più recente, fino ad arrivare a quella in intestazione.
Con specifico riferimento al licenziamento, si legga Cass. lav. 25 luglio 2003 n. 11556 : “Qualora il datore di lavoro abbia giustificato il licenziamento con un comportamento usuale del lavoratore, dedotto sia sotto il profilo della mancanza disciplinare, sia sotto il profilo della impossibilità oggettiva della prosecuzione del rapporto di lavoro, il giudice che non ravvisi gli estremi del recesso per inadempimento è comunque tenuto ad accertare l’eventuale sussistenza di un motivo oggettivo di licenziamento, e cioè se si sia effettivamente creata una situazione di obiettiva incompatibilità del dipendente licenziato con l’ambiente di lavoro.”
La massima citata è emblematica di un filone che, anche in materia di licenziamento, analogamente a quanto visto per il trasferimento, ammette che una situazione di incompatibilità tra lavoratori si traduca in una oggettiva condizione di disorganizzazione o disfunzione aziendale, con la conseguenza che, non potendosi ricorrere a trasferimento del lavoratore, magari per le caratteristiche di unico e ristretto luogo di lavoro nell’azienda, né potendosi in ipotesi risolvere il problema con adibizione del lavoratore ad altre mansioni, diviene possibile anche ricorrere all’estremo rimedio della interruzione del rapporto lavorativo, per giustificato motivo oggettivo.
“La S. C. ha ritenuto che la legittimità del licenziamento richiede la ricorrenza di entrambe le condizioni surrichiamate, cioè la prova delle ragioni che rendono impossibile attendere la rimozione dell’incompatibilità e l’utilizzazione del lavoratore, con diverse mansioni, equivalenti o meno, in luogo diverso (Cass. 11.8.1998, n. 7904, resa in fattispecie di licenziamento per g.m.o. di un dipendente di impresa appaltatrice del servizio di nettezza urbana, che il commissario straordinario, nominato dopo lo scioglimento del consiglio comunale per infiltrazione mafiosa, aveva indicato come contiguo ad associazione mafiosa. L’incompatibilità ambientale, intesa come situazione stabilizzata di tensione e dissidio con i colleghi di lavoro o con i superiori, produttiva di disorganizzazione e disfunzione nell’ambiente di lavoro, sorta per effetto del comportamento del lavoratore, integra normalmente gli estremi delle ragioni oggettive che giustificano il trasferimento, salvo l’esercizio del potere disciplinare.)”
Un requisito del tutto analogo alla “situazione stabilizzata” or ora indicato, si trova nella espressione di incompatibilità “irreversibile” di una sentenza di merito: “Il datore di lavoro (nella specie p.a.) per potere legittimamente disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità organizzativa per incompatibilità ambientale, ha l’onere di provare che la permanenza del lavoratore nella sua sede originaria determina una ineliminabile disfunzione nell’organizzazione del lavoro. In tale contesto, quindi, è onere della p.a. allegare e provare, in modo specifico e rigoroso, la lamentata incompatibilità ambientale e cioè che la condotta del dipendente abbia prodotto o possa produrre effettivamente conseguenze di disorganizzazione, disfunzione o conflitto organizzativo interno all’unità produttiva, tali da escludere, in modo irreversibile, ogni possibilità di permanenza del dipendente nel posto ricoperto in precedenza (nella specie, è stata ritenuta insufficiente la motivazione che, nei confronti del dipendente in precedenza sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, non specifichi se la permanenza in servizio dell’impiegato stesso arrechi un qualche grave pregiudizio per la p.a., da riscontrarsi nella realtà fattuale, e non semplicemenete supposto)” .
Venendo alla sentenza qui in commento, il caso riguardava un lavoratore dipendente dell’Azienda Consorzio Trasporti Veneziano (ACTV) che era stato trasferito da un cantiere navale ove operava ad un deposito della stessa impresa, a seguito del fatto che il medesimo s’era ripetutamente lamentato con i superiori gerarchici per le cattive condizioni di sicurezza del cantiere ed aveva riferito al superiore gerarchico di un grave infortunio occorso ad un collega; tant’è che lo stesso lamentava in ricorso il carattere ritorsivo del suo trasferimento, ch’era stato giustificato dall’azienda con la “necessità di rasserenare i rapporti tra il medesimo ed i suoi colleghi di lavoro”. Tale circostanza non era stata peraltro contestata in alcun modo dal lavoratore; sicché la Corte ha rigettato il ricorso del medesimo, osservando che “i giudici di appello hanno ritenuto che l’azienda avesse provato che il trasferimento era giustificato dalla necessità di rasserenare i rapporti fra l’appellante e i suoi colleghi di lavoro; si tratta di una causale che rientra tra le ragioni organizzative, e che non è stata puntualmente censurata dalla difesa del lavoratore.”
Si conferma quindi, in conclusione, la tendenza, specie nella giurisprudenza della Cassazione, ad ammettere anche il licenziamento per incompatibilità ambientale, quale specie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, purché nella ricorrenza dei presupposti sopra indicati.
Conegliano, lì 17 marzo 2009.
Avv. Pietro Scudeller
(riproduzione riservata)

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